Protesi di anca, ginocchio e spalla: perché una protesi può fallire?

Sebbene gli impianti “moderni” siano considerati più sicuri del passato, è bene comunque tener presente che gli interventi di chirurgia sostitutiva articolare non sono banali, possono andare incontro ad un fallimento, e per questo è molto importante affidarsi a centri dedicati alla gestione di tali patologie.

Innanzitutto, per rassicurare un paziente che necessita di sottoporsi ad un intervento di sostituzione articolare (per frattura o per artrosi), è possibile affermane che fortunatamente i fallimenti protesici tutt’oggi sono rari, grazie specialmente alle nuove tecniche chirurgiche, ai protocolli “fast-track”  che consentono una ripresa precoce e alle caratteristiche dei nuovi materiali impiantabili, altamente biocompatibili e sicuri. Questo stima un miglioramento nella loro longevità: oltre i trent’anni per la protesi di anca  e superiore a vent’anni per le protesi ginocchio di ultima generazione e per le protesi di spalla, specialmente se inverse.

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Il campanello d’allarme che deve far sospettare che qualcosa nella protesi non funzioni è il dolore, soprattutto se tende ad aumentare con il passare del tempo. I soggetti portatori di protesi di ginocchio risentono di un dolore anche al semplice atto di piegarlo (cioè anche senza caricare), i portatori di protesi di spalla avvertono un’impossibilità all’elevazione della stessa associata o meno sensazioni di instabilità, i portatori di protesi di anca possono risentire di un dolore inguinale o laterale alla coscia anche semplicemente nel muoversi nel letto.

Il compito dello specialista è quello di individuare la causa principale: le anomalie possono essere molte, hanno frequenza variabile e possono essere conseguenza della combinazione di molti fattori. Le principali cause responsabili sono la mobilizzazione, l’instabilità o la rottura delle componenti della protesi stessa.

Per mobilizzazione si intende lo scollamento, cioè il distacco della protesi dall’osso, ed è conseguenza di una osteolisi (cioè perdita localizzata di massa ossea): questa condizione si verifica o per cause meccaniche, o per errata strutturazione del sistema tra osso e protesi, o per cause biologiche. Anche un rimodellamento osseo o un assestamento del tessuto fibroso periprotesico può creare una migrazione e spostamento secondario delle componenti. A volte può esserne causa una infezione, per contaminazione avvenuta durante l’operazione o per infezione insorta al paziente anche dopo anni dall’intervento (contaminazione ritardata) che ha determinato nel corpo il disseminarsi di germi che si sono soffermati proprio sulla protesi stessa. In questo caso particolare il paziente deve effettuare una terapia antibiotica mirata, la protesi deve essere espiantata e quando l’infezione è guarita il paziente deve sottoporsi all’impianto di una protesi definitiva.

L’instabilità dell’impianto protesico è più specifica di articolazioni mobili come spalla e anca: può determinare lussazioni e sublussazioni (perdita di contatto totale o parziale tra i capi articolari). Purtroppo il rischio di instabilità può verificarsi poco dopo tempo o a distanza di decenni dall’intervento, questo per una riduzione del tono muscolare (perdita di stabilizzatori dinamici).

La rottura della protesi per fortuna è un evento molto raro: può essere la conseguenza di traumi o sforzi eccessivi prolungati e ripetuti.

Esistono anche protesi articolari che determinano dolore in assenza di cause ben definite: si intende una piccola quota che definisce una sindrome di protesi dolorosa, senza causa apparente (si presuppone dettata da una ipersensibilità ai metalli.

L’intervento di revisione protesica è necessario se la protesi non garantisce una buona qualità della vita, e sono atti a garantire una stabilità a lungo termine, migliorare le funzionalità, risanare l’articolazione dal punto di vista biomeccanico, biologico se da infezione, e stabilizzare la struttura articolare.

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