La protesi d’anca

Mini-invasività e recupero fast-track

Alle domande risponde l’esperto il Dott. Marco Caforio, Specialista in Chirurgia Protesica ed Artroscopica.

Dottore, perché viene indicata la protesi dell’anca? Da cosa è costituita e quanto dura?

Un ortopedico indica la necessità di sostituire l’articolazione coxo-femorale con una protesi quando la cartilagine della testa del femore e dell’acetabolo viene a mancare (per un processo fisiologico dovuto all’età, magari accentuato da sovraccarichi funzionali e lavori pesanti). Una protesi si rende indispensabile anche per fratture del collo del femore o quando un’alterazione del metabolismo osseo degenera la struttura interna della testa del femore (necrosi ossea).

La protesi d’anca è costituita da uno stelo e da una coppa acetabolare (generalmente di leghe metalliche di Cr, Cb, Mb, Ti, oggigiorno biocompatibili e con possibilità di effettuare indagini anche di risonanza): stelo e coppa acetabolare rispettivamente sul versante femorale e su quello del bacino. Su di essi si posizionano una testina ed un inserto (queste ultime sono le vere coppie che si articolano e permettono la funzione articolare): possono essere in ceramica, polietilene o in oxinium (nuovissimo biomateriale maggiormente resistente a graffi o abrasioni, quindi più duraturo negli anni).

La longevità di una protesi dipende sia dai materiali utilizzati ma specialmente dal sovraccarico e dall’utilizzo che il paziente farà della propria nuova articolazione (“… oggigiorno i pazienti tendono a risolvere un problema artrosico con l’impianto di una protesi molto più facilmente, anche da relativamente giovani se il problema è presente ed invalidante, consci del fatto che le statistiche stimino una durata media di circa 18-20 anni; più l’età media si abbassa e maggiore è la richiesta funzionale del paziente, quindi è facile che riprenda a correre o ad effettuare sport impegnativi come lo sci o calcetto, attività che determinano un carico eccessivo sull’articolazione. Nelle statistiche che descrivono questa durata di impianto rientrano anche quest’ultimi pazienti. Le attività più sicure, che fan sì che la protesi duri per sempre sono nuotare, andare in bicicletta, camminare, giocare a golf…”).

Quando è giusto che un paziente si sottoponga all’intervento di protesi? 

Un recente lavoro condotto dall’Università Americana di Chicago all’inizio del 2020, pubblicato poi sulla Rivista Internazionale Journal of Bone and Joint Surgery, ha studiato l’importanza del timing da rispettare per un intervento di protesi articolare. Aspettando troppo si incorrere in una protesi dolorosa, un dolore residuo permanente seppur in presenza di un intervento comunque ben eseguito. Nel caso di un’artrosi d’anca (“…ricordo che l’artrosi non è solo un problema di cartilagine ma anche dell’osso sottostante!…”) la presenza di un’usura acetabolare importante può rendere necessario un impianto particolare, che abbia maggior ancoraggio all’osso (“…se l’acetabolo è estremamente usurato l’osso può essere deficitario con una minor tenuta…”). Purtroppo circa il 90% delle persone che soffre di dolori invalidanti aspetta troppo tempo per decidere di farsi operare, mentre il 25% lo decide in anticipo: questo dipende molto dalla persona e dal rapporto che ha con il medico che l’ha in cura.

Leggi l’articolo del JBJS

Cosa si intende per miniinvasività?

Un intervento di protesi d’anca viene considerato mini-invasivo solo se è accompagnato da una gestione perioperatoria semplificata atta a far star bene il malato e farlo camminare il prima possibile. Generalmente si tende a limitare il concetto di “mini-invasività” per riferirlo solo alla tecnica chirurgica, mai purtroppo all’intera esperienza del paziente sia in reparto che in sala operatoria.

Se il chirurgo sfrutta un accesso che eviti una seppur temporanea disinserzione di tendini e delle fasce muscolari il recupero sarà più rapido. Cercando di generalizzare e di riassumere in termini facili e comprensibili ai pazienti, il chirurgo può scegliere nel caso dell’anca una via d’accesso anteriore, laterale e posteriore (o postero-laterale): la scelta si basa prima di tutto sulle condizioni del paziente, del suo osso e in base all’esperienza personale del chirurgo.

La via “anteriore” prevede un accesso tra l’inguine e la regione del trocantere: si passa tra i muscoli e le sue fasce (quindi crea minor danno perché i muscoli non vengono distaccati), si discosta il fascio vascolo-nervoso e si arriva alla capsula. Questa è la vera via chirurgica “mini-invasiva”, con molti vantaggi (minori danni ai muscoli, minor dolore post operatorio, recupero più rapido e mobilizzazione precoce) ma purtroppo anche molte avversità (come l’estrema difficoltà di esecuzione su pazienti obesi o con massa muscolare importante, maggior tasso di problemi di guarigione delle ferite, difficoltà esecuzione e specialmente di ripresa in sede di revisione protesica) o complicanze per la vicinanza a strutture nobili (l’area chirurgica è proprio vicino ai nervi).

La via “laterale diretta” è la più usata e presenta innumerevoli vantaggi (esecuzione semplice e riproducibile, facile estensione in caso di revisione protesica o protesi difficile e minor tasso di lussazioni). La via contempla però una disinserzione dei muscoli gluteo medio e piccolo gluteo, ovviamente temporanea perché a fine procedura questi vengono reinseriti; l’atto di disinserzione di una struttura muscolo-tendinea può portare alla formazione di ossificazioni eterotopiche: alcuni farmaci nel postoperatorio sono prescritti apposta per prevenirne la formazione; una complicanza fortunatamente non frequente, se i tendini non si risaldano completamente all’osso, per la loro scarsa qualità, al paziente permane un’andatura anserina quando deambula (segno di trendelemburgh).

La via “postero-laterale”, sebbene di facile esecuzione e ripetitività in caso di revisioni, contempla uno “split” dei muscoli glutei senza alcun loro distacco delle inserzioni ossee ma un maggior sanguinamento (sconsigliata in pazienti anziani): se il chirurgo è poco esperto, vi è un maggior tasso di lussazioni, una maggiore facilità di allungamento dell’arto operato ed un maggior rischio di lesione del nervo sciatico.

Ricordo comunque che la vera chirurgia mini-invasiva non è quella che lascia una cicatrice più piccola ma è quella che punta a ripristinare sia l’anatomia che la biomeccanica funzionale degli arti nel migliore modo possibile, limitando il danno ai tessuti sani.

Cos’è il recupero veloce? …e di che tempi parliamo?

Per ogni intervento di protesi articolare al giorno d’oggi si adottano protocolli atti a limitare i danni dettati dall’allettamento e dalla immobilizzazione, e per questo vengono incitati il ripristino immediato della motilità e del carico sull’arto operato (eventualmente anche al termine dell’anestesia – in genere spinale – quindi dopo poche ore dall’intervento).

I protocolli definiti fast-track implicano una sinergica collaborazione tra il chirurgo ortopedico, l’anestesista, l’esperto di emostasi e trombosi, il terapista trasfusionale, il fisiatra ed il terapista riabilitatore.

E’ stato con l’avvento del Patient Blood Management che si sono gettate le basi di un vero e proprio “FAST-TRACK” (recupero veloce). Nel 2016 la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT) ha istituito le linee guida da adottare in tutti interventi protesici di anca, ginocchio e spalla, creando gruppi di esperti delle figure mediche sopraccitate ed emanando il documento di sintesi per ottimizzare l’assistenza al paziente. E’ stato un consensus tra le società SIOT, SIMTI, SIAARTI, SISET e ANMDO dove oltre a descrivere le raccomandazioni tecniche chirurgiche, venivano stabiliti tutti gli accorgimenti pratici pre e post operatori (che un ortopedico deve sapere) su come gestire il paziente dal prericovero, alla degenza ospedaliera, alla dimissione al domicilio.

Una parte speciale è stata dedicata all’utilizzo di farmaci che bloccano la fibrinolisi (acido tranexamico) somministrati durante e dopo poche ore dall’intervento, con un’emivita (cioè quanto rimane nel circolo del paziente) breve, quindi con un limitatissimo rischio di complicanze; quest’ultimo è stato un grosso passo avanti nella riduzione del rischio trasfusionale (la stima delle percentuale è molto variabile, essendo presenti moltissimi studi in letteratura, ma ormai appurato l’enorme importanza di questi protocolli).

Queste linee guida hanno dimostrato l’efficacia di una adeguata terapia antidolorifica, impostata nel postoperatorio e gestita dal terapista del dolore, perchè più alto è il dolore e maggiore è la pressione sanguinea, quindi l’anemizzazione del paziente (“…e un paziente debilitato si riprende molto più lentamente…!”). I protocolli analgesici sono molto importanti per l’ortopedico!

La ripresa già la sera stessa della mobilizzazione ed eventualmente anche della deambulazione è essenziale anche per la propriocettività e per lo schema motorio (cioè come il nostro cervello capta i propri arti nello spazio e come organizza il loro movimento coordinandolo con le altre strutture corporee).

Le calze antitromboemboliche limitano l’insorgenza di tromboflebiti e alcuni farmaci antinfiammatori (ove possibile COX-2) oltre a ridurre la flogosi limitano l’insorgenza di ossificazioni eterotopiche.

Il paziente generalmente viene dimesso dall’istituto per “acuti” (dove è stato eseguito l’intervento) dopo un periodo di tempo variabile da tre a sette giorni, dipendentemente se ritorni al domicilio o venga trasferito presso una struttura fisioterapica. Comunque la seconda tappa (la riabilitazione) è essenziale affinchè il paziente riprenda autonomamente le proprie attività quotidiane entro trenta giorni, senza o al massimo con una stampella (che abbandonerà dopo quindici giorni).

La protesi d’anca durante il periodo COVID: cosa è giusto sapere?

Durante il periodo della pandemia da Coronavirus molti interventi di chirurgica elettiva, specialmente interventi protesici di anca e di ginocchio, sono stati rinviati per garantire ed assicurare la chirurgia d’urgenza. Rinviare gli interventi è stata una misura tutelativa della salute collettiva che ha ridotto il rischio di contagio per gli inevitabili spostamenti ed evitato una maggiore vulnerabilità in fase di convalescenza. Laddove una Struttura Sanitaria riesce a garantire l’assistenza e la presenza di personale adeguato e controllato l’intervento, se difficilmente procrastinabile per il dolore e per le condizioni articolari riscontrate, può essere effettuato, sempre secondo i protocolli scrupolosi descritti dal Ministero della Sanità. Il colloquio con l’ortopedico che ha in cura il paziente è sempre fondamentale, perché se insieme si opti per rinviarlo a tempi migliori gli accorgimenti da seguire per limitare il dolore e la disfunzione sono l’applicazione di ghiaccio (specie nelle fasi infiammatorie acute con gonfiore, arrossamento e calore), esercizi di stretching (per aiutare a mantenere attivi i muscoli e lubrificate le articolazioni) e il calo ponderale (“…perdere peso!! Perché per ogni chilo di peso perso si riduce il carico su anche e ginocchia di 4-5 chili!…).

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